La Lega Nazionale per la Democrazia, il partito della leader birmana Aung San Suu Kyi , ha rivendicato una sostanziale vittoria nelle elezioni suppletive di domenica. «È l’inizio di una nuova era», ha dichiarato Aung San Suu Kyi. «Non è tanto il nostro trionfo ma quello di coloro che hanno deciso di partecipare al processo politico del Paese». Considerato lo storico evento, anche se bisogna attendere eventuali inattese conseguenze, riporto un mio vecchio articolo dedicato a questa grande fragile e coraggiosa donna birmana.
La tutela dei diritti umani: una sfida ancora aperta
“Liberi dalla paura”: l’appello di Aung San Suu Kyi per un futuro di pace
Parlando della dittatura in Myanmar (ex Birmania), non si può non ricordare il nome di Aung San Suu Kyi, attivista politica da anni impegnata a liberare il proprio Paese da un regime brutale. L’aspetto etico e civile sono una caratteristica che l’accompagnano sin dall’infanzia. È infatti figlia di Aung San, leader nazionalista, fondatore del partito progressista denominato Lega antifascista per la libertà del popolo (AFPFL), assassinato nel 1947 da esponenti di destra. All’epoca Aung San Suu Kyi ha soltanto due anni e questo tragico evento ne condiziona l’intera esistenza. Dopo aver ricevuto un’educazione di stampo occidentale – studiando filosofia, politica ed economia all’Università inglese di Oxford e dopo aver lavorato presso la sede newyorkese delle Nazioni Unite – di fronte alla crisi che attraversa il suo Paese, decide di dedicarsi alla vita politica. La Birmania dagli anni ’60 sta vivendo forti tensioni socio-politiche: nel 1962 viene instaurata una dittatura militare a seguito del colpo di stato attuato dal generale Ne Win. Ma la situazione si aggrava ancor di più nel 1988, quando una nuova giunta militare assume il potere e, attraverso il Consiglio per il Ripristino dell’Ordine e della Legge dello Stato (SLORC), crea un clima di repressione, culminato nelle esecuzioni sommarie e negli arresti di esponenti dell’opposizione. Proprio nel 1988, Suu Kyi – a seguito delle precarie condizioni di salute della madre – torna in patria, lasciando in Inghilterra i due figli e il marito (deceduto nel 1999 per una malattia incurabile, senza poter rivedere la moglie). Da allora, Suu Kyi non ha mai abbandonato i confini birmani, dedicandosi totalmente ad aiutare il proprio popolo a ritrovare la libertà. Sempre nel 1988, fonda la Lega Nazionale per la Democrazia, trasformandosi così nel personaggio simbolo dell’opposizione contro la dittatura. La sua popolarità appare evidente nel 1990, quando nelle elezioni legislative il suo partito ottiene 392 seggi su 485 all’Assemblea Nazionale. L’esito viene però invalidato dalla giunta militare.
La situazione dei diritti umani nell’ex-Birmania dal 1989 si aggrava a causa dell’imposizione della legge marziale che permette di imprigionare chiunque, anche in assenza di specifiche accuse o di un giusto ed equo processo. Il regime rende meno evidenti le azioni che permettono di mantenere il controllo sociale sulla popolazione. Chi è arrestato viene trattenuto nelle cosiddette guest house governative, nelle quali avviene la “rieducazione politica”. I detenuti – soprattutto se si tratta di personaggi politicamente rilevati e scomodi al regime – subiscono torture fisiche e psicologiche. E chi organizza manifestazioni pacifiche nel Paese contro il governo viene inevitabilmente condannato a un lungo periodo di carcere. La stessa Suu Kyi è stata più volte privata della libertà: è accaduto dal 1989 al 1995, anni in cui fu costretta agli arresti domiciliari. E ancora, nel 2000 è stata nuovamente sottoposta a una sorta di “messa al bando”, obbligata a rimanere confinata nella propria abitazione. Il 30 maggio 2003, nel corso di un’imboscata, è stata sequestrata e detenuta in un luogo segreto. È stata poi trasferita in una clinica per essere sottoposta a un delicato intervento chirurgico. Nonostante gli enormi ostacoli, Aung San Suu Kyi non hai mai perso il suo coraggio e la sua volontà di combattere la dittatura utilizzando unicamente mezzi non violenti. La sua determinazione è compiutamente espressa nel libro Freedom from Fear and Other Writings in cui afferma che “non è il potere che corrompe, bensì la paura”. Ed è con questo spirito che lotta pacificamente per contrastare la brutalità del governo. Incarna dunque la speranza che in Myanmar le catene dell’oppressione possano venire spezzate. Per questo, è stata insignita di numerosi riconoscimenti tra i quali figura il prestigioso premio Nobel per la Pace assegnatole nel 1991 “per la sua lotta non violenta in favore della democrazia e dei diritti umani”.