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Pierre Rabhi, la rivoluzione parte dalla terra

Il 4 dicembre 2021 ci ha lasciati Pierre Rabhi, il “contadino-poeta” – come amava essere definito – nato in Algeria, tra i pionieri dell’agroecologia. Scrittore, ecologista, si era impegnato attivamente per diffondere una cultura volta a proteggere, a rispettare e a nutrire la Madre Terra.

Nel 2015, ho avuto l’onore d’intervistarlo.

Per ricordarlo, propongo di seguito un estratto di quella intervista.


Quante volte abbiamo pensato di cambiare vita, di abbandonare il grigiore urbano e un lavoro talvolta alienante e sempre più precario? Quante volte è sorto l’anelito di ascoltare una voce interiore che grida l’urgenza di un maggiore contatto con Madre Natura? Questo bisogno sempre più diffuso di riconnettersi con gli elementi sembrerebbe una predisposizione innata nell’uomo, tanto che il sociobiologo Edward Wilson ha coniato il termine biofilia.

Secondo Wilson nel nostro patrimonio genetico è insita una forte connessione con l’ambiente e con gli altri esseri viventi. Un forte legame maturato nel corso dei millenni partendo dai nostri antenati, in epoche in cui l’esistenza procedeva secondo i ritmi delle stagioni e in funzione dei cicli naturali. La biofilia si manifesta in certi esseri umani in una maniera prorompente, come fosse un richiamo cui è impossibile resistere. Pierre Rabhi ha seguito proprio questo amore per la Natura sviluppando in modo pionieristico l’agroecologia, come ci racconta in quest’intervista.

«Ho voluto tornare alla terra per riavvicinarmi alla natura e all’agricoltura. Quando mi sono trasferito da Parigi con mia moglie, sono andato a vivere in campagna, nell’Ardèche. Ho lavorato in numerose fattorie come operaio agricolo. Vedevo come in tante aziende venivano utilizzati diversi prodotti chimici. Il sistema produttivo imperante si fondava su metodi che inquinavano l’acqua, la terra, l’aria. Proprio per questo, dentro di me ero molto combattuto, come accadde anni prima quando lavoravo in fabbrica. Non condividevo il modello predominante, nonché certi meccanismi e regole dell’epoca. Nel settore agricolo le pratiche e la gestione del suolo erano altamente deleteri. Amando molto leggere ed essendo curioso, ho scoperto l’agricoltura biodinamica grazie al libro La Fertilità della Terra di Ehrenfried Pfeiffer, un manuale che spiega come lavorare il suolo, migliorandolo in qualità e salvaguardandolo.

Queste idee mi interessavano! Piuttosto di portare avanti un’agricoltura concepita solo a fini produttivi, che distrugge e inquina, si può formulare un’alternativa. Quindi la mia scelta etica e morale mi ha spinto negli anni ’60 verso l’agricoltura ecologica, che ho cercato di sviluppare nella fattoria che ho acquistato insieme a mia moglie Michèle. Poi ho pensato come diffondere l’agricoltura biologica in Francia, dove vivo, e anche in Africa. Credevo e credo strenuamente nell’agroecologia, con cui si possono gestire in modo naturale l’acqua, la terra e l’ambiente nel suo complesso, nel rispetto della biodiversità. Si può agire in modo efficace contro l’erosione del suolo, contro la desertificazione».

In questi ultimi anni, nel settore dell’agricoltura quali cose sono cambiate? E quali sfide tu vedi in favore di un cambiamento basato sui principi dell’agroecologia?

«Per fortuna ci sono sempre più persone che pretendono prodotti biologici e che sono consapevoli dell’importanza di un’alimentazione sana, naturale. Per cui il numero di agricoltori che seguono i parametri dell’agricoltura biologica è aumentato rispetto a quando ho iniziato io, nel 1960. Molte persone oggi sono coscienti del fatto che coltivare in modo ecologico, senza l’uso di sostanze chimiche, non solo dà frutti genuini, ricchi di sostanze nutritive, ma migliora la stessa qualità del suolo e mantiene la biodiversità. Con l’agricoltura chimica si assiste invece alla distruzione del terreno. Pesticidi e altri prodotti di sintesi sono una catastrofe planetaria! E un’altra catastrofe è la scomparsa delle sementi rimpiazzati un po’ in tutto il mondo da OGM e da semi industriali creati e brevettati dalle multinazionali.

C’è poi un altro disastro ecologico, cioè la diminuzione delle api, avvelenate dall’uso di pesticidi sempre più nocivi. Anche l’acqua – divenuta ormai merce – è inquinata e mal amministrata in molte aree del pianeta. Un altro problema, ed è una sfida che mi sta a cuore, è che ci sono ancora troppi agricoltori che sfruttano il suolo secondo criteri puramente industriali; abbiamo bisogno di contadini che siano invece guardiani della vita, custodi della terra. Ci sono quindi ancora numerosi problemi da affrontare. Noi tutti abbiamo il dovere etico di modificare il paradigma dominante, altrimenti la crisi ambientale sarà un dramma planetario senza precedenti».

Raccontaci la tua esperienza in Burkina…

«Ho lavorato in Burkina Faso e abbiamo creato il primo centro di agroecologia chiamato Gorom Gorom destinato ai contadini, i quali erano in una condizione di grande difficoltà, a causa dell’aridità del suolo e dei prezzi dei prodotti agricoli decisi a livello internazionale. Tutto questo era aggravato dall’uso di prodotti chimici altamente nocivi. I contadini burkinabé erano prigionieri di un sistema produttivo deleterio tanto per loro quanto per la terra. Grazie all’introduzione dell’agroecologia li abbiamo affrancati da questo circuito eliminando prodotti di sintesi e inquinanti. Li abbiamo liberati anche dall’acquisto di prodotti molto costosi come i fertilizzanti chimici. Ricordo che servono quasi tre tonnellate di petrolio per produrre una tonnellata di concime: da qui il motivo del loro costo elevato. In Burkina vengono coltivati in particolare le arachidi e il cotone, che sono venduti secondo le tariffe internazionali.

Si può dire che il contadino americano e il contadino africano sono considerati secondo gli stessi parametri e inseriti nel medesimo sistema di prezzi. Per cui il piccolo agricoltore, che non ha sovvenzioni o aiuti, è molto svantaggiato. È per questo che abbiamo introdotto le pratiche dell’agroecologia. In Burkina Faso incontrai Thomas Sankara. Lui stesso mi chiese di entrare nella sua amministrazione per diffondere l’agroecologia, trasformando interamente il settore agricolo secondo i principi biologici. Purtroppo, a causa delle sue idee e per quello che stava facendo per il suo paese è stato assassinato. Malgrado questa tragedia, attraverso il Centro di Gorom Gorom siamo riusciti a educare molti contadini, che a loro volta hanno diffuso i principi dell’agroecologia ad altri agricoltori burkinabé».

Nel 2006 hai avuto l’idea dei Colibrì. Puoi raccontarci com’è nata?

«Si tratta di un Movimento, sorto in Francia, poi sviluppatosi anche in Belgio e in Svizzera, fondato sul presupposto che i cittadini debbano prendere le redini del proprio destino. L’idea mi è venuta leggendo un racconto tradizionale dei popoli amerindi che dice: “Un giorno ci fu un immenso incendio nella foresta. Tutti gli animali sconvolti, atterriti, osservavano impotenti il disastro. Solo il piccolo colibrì reagì, andando alla ricerca di qualche goccia d’acqua col suo becco per gettarle sul fuoco. Dopo un po’, l’armadillo, infastidito da questa agitazione, gli disse: “Colibrì, sei folle! Non è con queste gocce d’acqua che spegnerai il fuoco!”. E il colibrì: “Lo so, ma io faccio la mia parte”. Il senso di questa storia è che “quello che posso fare, lo faccio”, ed è proprio questo il presupposto concettuale del Movimento Colibrì. Noi diciamo: anziché essere rassegnati, anziché arrabbiarsi per le azioni delle multinazionali, ciascuno di noi realizzi qualcosa di positivo. Se ognuno facesse la propria parte, come il colibrì, si potrebbe attuare una vera rivoluzione. Il Movimento si sta espandendo proprio perché le persone iniziano a compiere piccoli gesti, iniziano a reagire e ad agire in modo ecologico e consapevole».

Una rivoluzione che può partire anche dall’autonomia alimentare, una necessità sempre più importante in relazione alla crisi economica e culturale che viviamo in questi anni

«Assolutamente! Bisogna produrre e consumare localmente. Questo per me è una regola. Non si può consumare cibo prodotto a migliaia di chilometri di distanza, un cibo che inquina e che rovina gli equilibri ambientali. È importante produrre localmente, proprio perché si riduce enormemente l’impatto ambientale della trasformazione del cibo: non occorrono trasporti, spese ingenti e tempistiche lunghe che si ripercuotono sul consumatore.

Il motto dei Colibrì è: “piantare ciò che mangiamo”. Questo significa non utilizzare petrolio per i trasporti, non inquinare, non usare prodotti fitosanitari di sintesi deleteri per l’ambiente, non impoverire la terra. L’autoproduzione biologica è una rivoluzione, rispettosa sia della natura, sia dell’uomo. L’autonomia alimentare dovrebbe rientrare nella gestione politico-amministrativa di un paese. Sono necessarie figure politiche che si interessino di questi argomenti. Ciò è molto difficile, poiché in Europa la politica è al servizio del capitalismo internazionale e dei grandi poteri finanziari. Questo io lo rifiuto totalmente. Purtroppo prevale ancora il potere del denaro».

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