Il 2013 è un annus mirabilis per i fan del “duca bianco”: dopo un lungo decennio di attesa, l’alieno che cadde sulla Terra è ritornato con un nuovo disco dal titolo The Next Day. Qui non vogliamo recensire quest’ultimo lavoro – a nostro avviso un po’ deludente (in questi ultimi anni, Mr David Robert Jones avrebbe potuto comporre qualcosa di più originale e di più ispirato) –, bensì ritornare sui suoi passi durante il florido periodo berlinese. Lo facciamo attraverso le pagine del volume David Bowie – Berlino: a new career in a new town curato dall’Auditorium edizioni. Un testo, tra parole e immagini (ricca la galleria fotografica inserita), presentato in concomitanza con l’esposizione omonima al libro organizzata alla ONO Arte Contemporanea di Bologna (che purtroppo ha chiuso i battenti a metà febbraio: con l’uscita del nuovo album avrebbe potuto protrarsi almeno sino a primavera inoltrata. Per fortuna, si trasformerà in mostra itinerante e girerà tra Milano, Berlino e Parigi nei prossimi mesi!).
Il volume ripercorre, seppur con qualche dilatazione e riferimento ad altri periodi, una fase ben precisa della lunga carriera di Bowie, nota con la denominazione di “periodo berlinese”. In realtà, questa definizione risulta un po’ sibillina se si pensa che i tre dischi considerati berlinesi sono stati registrati non nella città tedesca, all’epoca – sono gli anni Settanta – divisa tra Est e Ovest, sulla scia delle assurde logiche della Guerra Fredda. Low (1977) è registrato in Francia, ma mixato poi a Berlino; Lodger (1979) è registrato tra Montreux e New York; in pratica, solo Heroes (1977) è formalmente nato a Berlino. Ma questi sono dettagli.
Interessante è invece leggere nelle pagine del libro le inquietudini di un artista camaleontico, che ha saputo attraversare luci e ombre, sperimentando e portando al successo la teatralità del glam-rock, la ribellione del punk, le sperimentazioni new wave ed elettroniche, per poi entrare nella pop-dance degli anni Ottanta. Ma perché il “periodo berlinese” è così amato dai suoi estimatori? Lo si comprende non solo ascoltando brani come “Sound and Vision”, “Sense Of Doubt”, “Moss Garden”, “D.J.”, ma anche leggendo di amicizie, di svolte musicali ed esistenziali intercorse tra David Bowie e l’amico Iggy Pop – entrambi all’epoca dipendenti da droghe –, e poi tra Bowie e Brian Eno, entrambi reduci dai successi orientati al glam-rock.
Le pagine di A new career in a new town non mostrano solo la rinascita musicale ed esistenziale del “duca bianco”, ma anche i suoi lati più oscuri ed enigmatici, come il suo presunto interesse al nazismo: una simpatia per questo disastroso regime, che alcuni hanno letto come pura provocazione da parte di Bowie, mentre altri l’hanno duramente criticato per i suoi commenti – in effetti fuori luogo – ironici verso una figura così malata quale fu Hitler che, respinto all’Accademia delle Belle Arti di Vienna, si buttò con mille frustrazioni nel più bieco populismo dittatoriale. Il volume dell’Auditorium edizioni non parla solo di Bowie, della sua musica, delle sue idee, ma illustra in-direttamente anche un periodo storico – il decennio dei ’70 – caratterizzato da un incredibile fermento culturale, che ci ha lasciato una grande eredità, da rielaborare e in parte da recuperare, alla luce di una contemporaneità un po’ troppo sterile e appiattita che necessita di quello stesso fervore artistico e sociale di allora.