Finalmente un libro che racconta eventi e personaggi rimasti spesso nell’ombra, a causa di atteggiamenti e ideologie razziste, eurocentriche e imperialiste. Lilian Thuram dà voce ai figli della Madre Africa e della diaspora africana, restituendo quella dignità loro negata dal predominio della “cultura bianca”
Può un libro far conoscere un ex calciatore a quanti non amano, né seguono “lo sport italiano nazionale per eccellenza”? Può un libro illuminare e scandagliare ancora la storia, dopo tanti trattati, saggi, pamphlet pubblicati? Può un libro coinvolgere il lettore talmente tanto da spingerlo a chiedersi quante menzogne e falsificazioni storiche siano state attuate per soggiogare una parte di mondo?
La risposta a queste domande è sempre affermativa considerando “Le mie stelle nere” di Lilian Thuram (Add Editore, Torino, 2013), un volume che è al contempo saggio storico, raccolta di biografie, diario personale. Questo testo sorprende e appassiona, poiché mostra figure di alto profilo, coraggiose, dotate di acume e di sensibilità, che hanno cambiato il volto della Storia, in senso ampio o in senso più locale. Sono figure che hanno in comune il colore della pelle: da qui la scelta di intitolare il libro “Le mie stelle nere”. In realtà, come si evince dalla lettura, le sfumature della carnagione non sono così nette: si tratta più di gradazioni marroni, più o meno intense.
Sono stati i teorici del razzismo a suddividere l’umanità in determinati gruppi di popoli, a seconda del colore della pelle. Sono state le principali correnti culturali nate nel cuore dell’Europa del diciottesimo secolo ad avere un’enorme influenza sulle fondamenta stesse del pensiero razzista. Tanto ha pesato l’antropologia: si pensi agli scritti di Christian Meiners (in primis, “Compendio della storia dell’umanità”, in lingua originale Grundriss der Geschichte der Menschheit del 1785) che identificava la piccola statura con l’inferiorità razziale, mentre dai suoi presunti studi «l’alta statura è una caratteristica della nobiltà caucasica». La forma del naso, le caratteristiche dei capelli, la struttura delle ossa e del cranio erano tutti elementi discriminanti per individuare la bellezza, quindi la supremazia, di un gruppo di popolazioni. Tra il XVIII e il XIX secolo, l’idea di “razza” si è imposta per legittimare il colonialismo, la schiavitù, il dominio europeo su terre straniere.
Questo e altro ancora a livello teorico-accademico ha pesato sulla cultura generale europea e di riflesso sulle dinamiche intercorse tra i vari popoli del mondo. Per fortuna, negli ultimi decenni le tante falsificazioni storiche si stanno sfaldando e frantumando per la loro inconsistenza scientifica, a cominciare dalla stessa idea che l’umanità si possa dividere in razze: una teoria confutata dalle più recenti indagini condotte da seri genetisti e ricercatori, tra cui Rita Levi Montalcini, Premio Nobel per la medicina nel 1986, la quale ha più volte dichiarato: “Non esistono le razze, esistono i razzisti”.
Anche Lilian Thuram parla di queste falsificazioni, di questi assurdi e infondati pregiudizi che possono sfociare nelle più terrificanti politiche di discriminazione, segregazione e separazione razziale, come è accaduto negli Stati Uniti e in maniera ancor più dilatata e invasiva in Sudafrica, dove il razzismo era istituzionalizzato per legge.
Lilian Thuram ha scritto questo libro per offrire all’umanità intera un’altra prospettiva, per raccontare storie di donne e uomini ghettizzati solo per il loro colore della pelle. E così, leggendo le pagine di “Le mie stelle nere” si scoprono tante figure interessanti, come Anna Zingha, regina del regno di Matamba, l’ultima roccaforte dell’Angola ancora libera dal dominio colonialista portoghese: una donna forte e coraggiosa che ha saputo proteggere il suo regno con astuzia, diplomazia e saggezza, sino a quando l’espansionismo e l’ingordigia degli europei non riuscirono a sfaldare la pace e il benessere angolano. Altrettanto interessante è la figura di Doña Beatriz, che ebbe la visione di sant’Antonio mentre era a letto febbricitante: il santo la esorta a resistere all’invasione portoghese e ad affrancare il suo popolo dalla miseria.
Leggendo la storia di Doña Beatriz si scopre un elemento importante nella storia dell’attuale Repubblica Democratica del Congo, e cioè che in origine questo territorio aveva il nome di Kongo, un termine che significa “cerchio, universo, centro dell’universo” (un po’ come il concetto di “Impero di centro” che hanno i cinesi del loro Stato). Scrive a tal proposito Lilian Thuram: «Perché l’Europa gli ha imposto una “C”? Sostituendo quella lettera il paese è stato privato della sua essenza, così come ne sono stati privati le donne e gli uomini, falsificando la storia millenaria di un intero popolo».
E di falsificazioni storiche ne sono state compiute! Lo ha ricordato anche Stephen Biko, in un Sudafrica dove la storia di questa terra era deformata da pregiudizi razziali: la storia ufficiale del Sudafrica demonizzava le gesta e gli eroi africani ed esaltava, invece, i personaggi e le vittorie dei colonizzatori europei rispecchiando, in ciò, la visione e gli intenti della componente bianca. Quest’ultima aveva elaborato una serie di fallaci postulati storici, sui quali venne poi fondato l’intero sistema di apartheid. Anche attraverso la disciplina storica, gli africani venivano rappresentanti come esseri inferiori, non dotati delle stesse abilità dei bianchi [1].
Da qui, la necessità di una riscrittura della Storia, veritiera e obiettiva. Una necessità di cui ha bisogno l’umanità intera. Ecco perché è importante leggere “Le mie stelle nere”: sono pagine che aprono la mente, allargano gli orizzonti e mostrano vicende e personaggi ghettizzati dal predominio culturale dei bianchi, o come direbbe Stephen Biko, delle persone che hanno un colorito “più rosa che bianco”, ironizzando la definizione del colore della pelle di un uomo!
Lilian Thuram fa così ri-scoprire figure già note a quanti hanno letto di panafricanismo e di negritudine o del tutto sconosciute a chi ha sempre vissuto pensando al predominio culturale e scientifico dei bianchi: troviamo figure come Marcus Garvey (1887-1940), fondatore del movimento detto “Garveismo”, spesso definito “Back To Africa”, col quale veniva auspicato un ritorno dei neri alla loro patria ancestrale, l’Africa; movimento che rappresentò una forma di panafricanismo. O ancora, Lilian Thuram parla di Aimé Césaire, poeta, scrittore e politico francese nato in Martinica, impegnato a livello letterario, sociale e culturale; e poi troviamo Frantz Fanon, intellettuale bistrattato nelle scuole italiane, ma che avrebbe tanto da insegnare! Fanon, anch’egli originario della Martinica (ex-colonia francese), ebbe come professore proprio Aimé Césaire, ed è l’autore di due testi rivoluzionari per l’epoca in cui sono stati scritti e forse sono rivoluzionari ancora ai nostri tempi, ovvero Peau noire, masques blancs (“Pelle Nera, Maschere Bianche”) del 1952 e Les damnés de la terre (“I dannati della Terra”) del 1961. Particolarmente illuminante è la descrizione che compie Fanon della città del colono e di contro della città del colonizzato: un mondo a scomparti che deve far riflettere, una separazione vigente tutt’oggi in svariati angoli del pianeta! [2]
Lilian Thuram con questo libro dimostra la sua sensibilità e il suo acume verso la questione del razzismo, un tema che deve essere considerato, affrontato seriamente e risolto, per far germogliare una nuova umanità, una nuova società fondata sul rispetto reciproco e sulla solidarietà. Toccante e assolutamente condivisibile una frase che Lilian scrive nell’Introduzione al suo bellissimo libro: «Il giorno in cui sui muri delle scuole e nei libri ci saranno studiosi e inventori di ogni colore, il giorno in cui sarà insegnata la storia delle grandi civiltà africane, asiatiche o amerinde […] le mentalità potranno progredire».
L’impegno di Lilian Thuram contro il razzismo si sviscera anche attraverso la Fondazione da lui creata e sostenuta, con cui porta avanti progetti, non solo nelle scuole, volti a destrutturare pregiudizi razziali, ispirandosi all’operato di donne e uomini che hanno gettato semi di giustizia nel mondo: da Gandhi a Nelson Mandela, da Martin Luther King a Rosa Parks, ovvero importanti esempi di vita, da ricordare ogni giorno per costruire una società in cui l’identità di ogni individuo sia riconosciuta, valorizzata, rispettata.
Silvia C. Turrin
L’articolo è on line anche sul sito di SMA Afriche
Lilian Thuram
nato in Guadalupa nel 1972 è stato un importante giocatore internazionale, campione del mondo nel 1998 e campione europeo nel 2000, oltre a molti altri riconoscimenti in altre squadre. In Italia ha giocato nel Parma e nella Juventus. Nel 2008 ha creato la Fondazione Lilian Thuram, éducation contre le racisme.
Il sito ufficiale della Fondazione Lilian Thuram http://www.thuram.org
[1] Il movimento della Consapevolezza nera in Sudafrica. Dalle origini al lascito di Stephen Biko, Silvia C. Turrin, Erga, 2011, pag. 139
[2] “La città del colono è una città di cemento, tutta di pietra e di ferro. È una città illuminata, asfaltata, in cui i secchi della spazzatura traboccano sempre di avanzi sconosciuti, mai visti, nemmeno sognati. I piedi del colono non si scorgono mai, tranne forse in mare, ma non si è mai abbastanza vicini. Piedi protetti da calzature robuste mentre le strade della loro città sono linde, lisce, senza buche, senza ciottoli. La città del colono è una città ben pasciuta, pigra, il suo ventre è pieno di cose buone in permanenza. La città del colono è una città di bianchi, di stranieri. La città del colonizzato, o almeno la città indigena, il quartiere negro, la medina, la riserva, è un luogo malfamato, popolato di uomini malfamati. Vi si nasce in qualunque posto, in qualunque modo. Vi si muore in qualunque posto, di qualunque cosa. È un mondo senza interstizi, gli uomini ci stanno ammonticchiati, le capanne ammonticchiate. La città del colonizzato è una città affamata, affamata di pane, di carne, di scarpe, di carbone, di luce. La città del colonizzato è una città accovacciata, una città in ginocchio, una città a testa in giù”, F. Fanon, I dannati della terra, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1976, pagg.6,7.