«Il multiculturalismo ha posto al centro della propria strategia il tema identitario, la responsabilità di ogni singolo artista per l’uso che fa del linguaggio per produrre “un’arte puntata sul mondo” come diceva Picasso. Se l’arte è sempre produzione di Catastrofe ed irruzione dell’immaginario individuale sull’equilibrio tettonico del linguaggio sociale, questo ci permette di affermare l’inevitabilità di un’arte contro. Tutte le arti diventano marziali e il processo creativo diventa allestimento di un arsenale iconografico di opere di combattimento». Così Achille Bonito Oliva spiega il tema centrale della quarta edizione della Biennale Internazionale d’Arte di Malindi, che chiuderà i battenti il 28 febbraio 2013. Si tratta di un evento che vuole mettere in luce lo sguardo creativo degli artisti africani (vi sono comunque opere anche di altri artisti originari di varie nazioni, tra cui Italia, Francia, Olanda, Brasile, Cina).
Fra i nomi più noti troviamo quello di George Lilanga, pittore e scultore tanzaniano, purtroppo deceduto nel 2005 a 71 anni. Le sue opere, alcune delle quali riproposte alla Biennale, affascinano da sempre per l’intensità dei colori e per le forme morbide, originali: uno stile derivante dalla corrente pittorica tipica della Tanzania chiamata tinga tinga.
Altro nome di spicco riproposto alla biennale è dell’artista Mikidadi Bush (classe 1957), anche lui della Tanzania, anche lui pittore con un background legato agli stilemi tipici del tinga tinga. Nelle sue opere Mikidadi ritrae coloratissime figure, come animali della savana e personaggi con lineamenti accentuati: sono dipinti che racchiudono riferimenti all’animismo africano, ai rituali tradizionali, talvolta con uno sguardo al presente.
Anche le opere della pittrice sudafricana Esther Mahlangu vengono ripresentate alla Biennale di Malindi: pure Esther è un volto africano famoso, molto apprezzato a livello internazionale per la sua tecnica pittorica tipica dell’etnia Ndebele cui appartiene. Una tecnica stlistica molto colorata, geometrica, nel perfetto stile delle decorazioni che compaiono sulle case del popolo Ndebele.
Bisogna sottolineare che questi e altri artisti africani meriterebbero più attenzione e maggiore tutela nei rispettivi paesi d’origine e a livello internazionale, perché le loro opere possono diventare oggetto di speculazioni, come è accaduto a George Lilanga. Quando nel 2005 è deceduto, si è venuto a creare un problema di autenticazione delle sue opere e addirittura sembrerebbe che solo due critici d’arte italiani avrebbero la piena facoltà di valutarle, affermando se si tratti di originali o falsi. Questo appare assurdo, considerato che Lilanga era un artista tanzaniano e che quindi dovrebbero essere le autorità tanzaniane legate alle Belle Arti o i suoi stessi familiari a decretare se un’opera appartiene al genio o meno. Quindi anche nel settore dell’arte appare esserci una neocolonizzazione occidentale: la fama degli artisti africani pare dipendere dai giochi e dalle mode europee o statunitensi. Persino una volta deceduti le opere di pittori, scultori africani rischiano di essere in balia di questo o quell’altro critico occidentale di turno.
Più sincera nel suo allestimento è la mostra intitolata …E le chiamano primitive, organizzata a Prato dall’associazione ArtinPo in collaborazione con l’assessorato alla Cultura del Comune. Aperta sino al 24 febbraio 2013, l’esposizione vuole condurre il visitatore in un assaggio dell’arte tribale africana, attraverso sculture, nonché maschere rituali legate a varie etnie dell’Africa Subsahariana. Le opere esposte provengono da alcune collezioni pratesi. Questa mostra vuole essere una sorta di assaggio della vasta e complessa arte africana, che da sempre influenza gli artisti occidentali: basti citare Picasso che ha attinto proprio dalle espressioni tribali, come nel quadro Les demoiselles d’Avignon.
Silvia C. Turrin
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