Negli ultimi tempi, è riapparso il termine “pirateria” per effetto dei numerosi casi di rapimento di navi da parte di moderni bucanieri che scorazzano al largo delle coste della Somalia. Esiste però un altro tipo di saccheggio, ben più subdolo e spesso taciuto, che rappresenta la nuova frontiera del neocolonialismo.
Questa nuova depredazione è chiamata “biopirateria” e, come suggerisce il termine, si tratta del furto di risorse genetiche da parte di multinazionali o aziende private che brevettano i geni di piante, utilizzate nei paesi del Sud del mondo per curarsi e nutrirsi. La biopirateria è un fenomeno che coinvolge l’America Latina, con quel suo incredibile polmone verde pieno di ricchezze che è la foresta amazzonica, il continente asiatico e l’Africa, dove i sistemi di medicina tradizionale utilizzano le erbe come rimedi per curare diverse malattie.
Molte ditte farmaceutiche occidentali stanno sempre più sfruttando conoscenze ancestrali per lanciare sul mercato medicinali che contengono estratti di piante africane. L’aspetto più illecito di tali operazioni riguarda la registrazione di brevetti sui semi, senza tener minimamente conto dei diritti dei popoli che da sempre li utilizzano e li coltivano.
Un esempio riguarda il cactus chiamato Hoodia, impiegato di generazione in generazione dai Boscimani del Sudafrica, Namibia e Botswana per attenuare i morsi della fame durante le lunghe e faticose battute di caccia nelle zone desertiche: nel gambo del cactus è conservato un principio attivo in grado di attivare un prolungato senso di sazietà. Questo sapere millenario è stato scoperto e brevettato dalla Phytopharm, piccola azienda farmaceutica inglese che poi, per la cifra di 21 milioni di dollari, ha consegnato alla nota multinazionale Pfizer la licenza per l’utilizzo della sostanza. Un brevetto foriero di profitti, considerato l’alto numero di persone in sovrappeso negli Stati Uniti e negli altri paesi del Nord del mondo.
Le comunità locali protestano contro le multinazionali
Non è andata altrettanto bene all’azienda farmaceutica tedesca Schwabe, che ha visto ritirarsi il brevetto relativo all’utilizzo di due specie indigene di geranio che crescono in terra sudafricana. Si tratta del pelargonium sidoides e del pelargonium reniforme, le cui radici contengono estratti attivi usati da millenni nella medicina tradizionale per curare le infezioni respiratorie e altre malattie, come la tubercolosi. Grazie alla battaglia lanciata dalla comunità di Alice (cittadina della provincia sudafricana dell’Eastern Cape) – sostenuta dal Centro africano per la sicurezza biologica (ACB) e da due associazioni no profit tedesche e una svizzera – l’Ufficio europeo dei brevetti ha abrogato i diritti esclusivi acquisiti dalla Schwabe.
Ma la lista della biopirateria a danno delle specie africane e delle comunità locali è davvero lunga. La Nestlé è stata di recente accusata dal Dipartimento sudafricano dell’Ambiente di aver depositato ben 5 brevetti riguardanti lo sfruttamento degli estratti del rooibos e dell’honeybush, piante endemiche del Sudafrica utilizzate da tempo immemore a scopi medicinali dalle comunità locali. La multinazionale è stata incolpata di aver violato la legge sudafricana sulla biodiversità e la Convenzione Onu sulla Diversità Biologica.
“Il problema è che non esiste un efficace sistema internazionale per il monitoraggio del fenomeno della bio-pirateria”, afferma Swiderska Krystyna, ricercatrice dell’Istituto internazionale per l’ambiente e lo sviluppo (IIED), con sede a Londra,
La Convenzione sulla biodiversità, un documento da valorizzare
Un ruolo importante di controllo lo effettua il già citato Centro africano per la sicurezza biologica, organizzazione no profit, da anni impegnata a proteggere la biodiversità in Africa e i tradizionali saperi delle comunità locali.
Del tema della biopirateria si parlerà in occasione della decima riunione delle Parti firmatarie la Convenzione sulla biodiversità, che avrà luogo a Nagoya (Giappone) dal 18 al 29 ottobre prossimi. Come sottolineato da un comunicato del WWF: “La Conferenza dovrà definire nuovi obiettivi e strategie per la conservazione della natura entro il 2020. È importante che a Nagoya si delinei un piano strategico operativo che preveda entro il 2020 il blocco della perdita della biodiversità e integri nelle politiche mondiali il valore della biodiversità e i servizi degli ecosistemi, che sono alla base del nostro futuro politico, sociale ed economico”.
L’incontro sarà cruciale anche per inserire la biodiversità nella contabilità nazionale di ciascun paese, perché la diversità biologica è un immenso patrimonio non solo naturale.
“È stato calcolato, ad esempio, che proteggere almeno un quinto delle aree di pesca istituendo aree marine protette creerebbe un milione di posti di lavoro mentre i sussidi alla pesca costano alla collettività circa 70-80 miliardi di dollari l’anno”, ha dichiarato Gianfranco Bologna, direttore scientifico del WWF Italia.
Il fenomeno della biopirateria non fa che distruggere la diversità biologica e quindi le ricchezze del pianeta, poiché le sole logiche del profitto economico non possono tutelare valori e saperi ancestrali.
Articolo di Silvia C. Turrin © originariamente scritto e pubblicato su SMA-Africa