Era il 1990. Dopo trenta lunghi anni di esilio, Miriam Makeba ritornava in Sudafrica, dove nacque nel 1932. Ritornava da donna libera, in un Paese che stava riconquistando in modo del tutto pacifico la propria libertà dopo decenni di segregazione razziale legittimata a livello politico-economico.
Nel 1994, Nelson Mandela divenne il primo presidente sudafricano eletto democraticamente da un elettorato entusiasta, la maggioranza del quale poteva finalmente sperimentare il diritto di voto.
Mama Africa, come veniva affettuosamente chiamata la grande vocalist nata a Johannesburg, pur felice della fine del lungo regime di apartheid (iniziato nel 1948 con la vittoria del National Party e terminato ufficialmente nel 1994), dieci anni dopo le prime elezioni multirazziali, pronunciò queste parole: «Assaporare la libertà è davvero meraviglioso, ma c’è ancora molto da fare. È difficile sradicare in poco tempo decenni di razzismo. E la nostra democrazia è così giovane…». Una frase che lascia ancora una volta intuire la lucidità, nonché il coinvolgimento sociale di una cantante impegnata a diffondere messaggi di pace.
Uzenzile Makeba, questo il suo vero nome, sin da piccola ha toccato con mano le oscure ombre del razzismo. Ha perso il padre quando aveva solo cinque anni e sua madre ha subito un breve periodo di detenzione per aver prodotto in casa birra destinata alla vendita. Era un modo per mantenere la propria famiglia. Vissuta in un ambiente umile e pieno di dignità, Zenzi, diminutivo di Uzenzile, tra un lavoro e l’altro (come baby-sitter e come lava-taxi), si dedicava all’immensa passione per il canto. Grazie all’intensità delle sue interpretazioni, alla gioia e alla forza che emanava al pubblico, si fece conoscere in molti ambienti musicali, tanto da essere chiamata nel 1952 dallo storico gruppo jazz Manhattan Brothers. Fu con loro che iniziò a farsi chiamare Miriam. Un nome che varcò i confini del Sudafrica grazie all’incredibile successo di “Pata, Pata”. La sua notorietà, che cresceva di anno in anno, si estese dopo la partecipazione al film di denuncia Come Back, Africa, firmato dal regista americano Lionel Rogosin, in cui vengono fortemente criticati l’allora regime di apartheid e la minoranza che deteneva le redini del potere. Proprio per questa apparizione, Miriam Makeba fu costretta all’esilio. Nonostante la lontananza forzata, attraverso la musica è stata portavoce dei diritti della sua gente, come dimostrano i numerosi appelli e discorsi anti-apartheid non solo in occasione di concerti, ma anche davanti all’ONU. Quando nel 1963, partecipò a una riunione di un comitato speciale delle Nazioni Unite sull’apartheid per chiedere il boicottaggio internazionale del Sudafrica, il governo di Pretoria rispose bandendo dal Paese ogni suo disco.
Anche negli Stati Uniti, dove fu accolta con grandi ovazioni quando decise di trasferirvisi − grazie al successo ottenuto con An evening with Harry Belafonte (album che le valse il prestigioso Grammy Award) − emerse un atteggiamento critico verso Mama Africa, a causa del suo matrimonio con il noto leader delle Black Panther, Stokely Carmichael. Nella vita di Miriam Makeba sembra che ingiustizie, attivismo politico e musica si siano sempre intrecciati in maniera indissolubile. Per questo è stata definita simbolo della lotta contro le discriminazioni. In realtà, come ha sottolineato in un’intervista concessa al giornale britannico The Guardian: «Non mi sento una “cantante politica”. Non so nemmeno cosa questo significhi. Le persone credono che io, in modo consapevole, volevo denunciare al mondo i fatti che accadevano in Sudafrica. Io cantavo semplicemente la mia vita. In Sudafrica abbiamo l’abitudine di cantare ciò che succede attorno a noi, soprattutto le situazioni che ci feriscono maggiormente». Attivismo politico deliberato o meno, è indubbio che la Makeba abbia “usato” la musica come mezzo per denunciare le violazioni dei diritti umani in Sudafrica. Lo ha fatto partecipando anche al progetto Graceland, di Paul Simon, del 1987, e soprattutto comparendo alla storica pellicola Amandla! A Revolution in Four Part Harmony (2003) di Lee Hirsch, in cui viene messo in risalto il ruolo della musica nella lotta contro l’apartheid.
Più che attivista politica, si può dire che Miriam Makeba sia stata una donna socialmente impegnata, come testimoniano i suoi progetti per aiutare le persone affette dalla terribile piaga dell’HIV, ampiamente diffusa in Sudafrica.
Sino all’ultimo, anche quando le forze le venivano a mancare, il suo spirito tenace la portava a reagire e a cantare per una giusta causa. Forse, come ha dichiarato il Premio Nobel per la Pace Nelson Mandela, colui che per primo la invitò a ritornare nel suo Paese natale dopo un lungo esilio: «È giusto che i suoi ultimi momenti siano stati sulla scena. Le sue melodie hanno dato voce al dolore dell’esilio». Mama Africa si è spenta nella notte tra il 9 e il 10 novembre 2008, per un attacco cardiaco appena terminata la sua ultima esibizione a Baia Verde di Castel Volturno, in occasione del concerto anticamorra e contro il razzismo dedicato allo scrittore Roberto Saviano. La sua morte, così come lo è stata tutta la sua vita, è un inno alla libertà e alla giustizia. Di lei rimangono dischi che raccontano la storia tormentata di un Paese che ha spezzato le catene dell’oppressione.
Articolo di Silvia C. Turrin pubblicato anche su SMA Africa