Il Ruanda, chiamato anche il “Paese dalle mille colline”, nel 1994 è stato inondato da un bagno di sangue: per cento giorni, dal 7 aprile sino all’inizio di luglio, si è attuato un vero e proprio genocidio dei Tutsi ad opera dell’etnia Hutu. Questo sterminio ha causato quasi un milione di vittime. I sopravvissuti al massacro, attingendo alla loro forza interiore e al desiderio di verità, hanno raccontato la loro tragica storia. Tra questi c’è anche Yolande Mukagasana (nata nel 1954, a Butare da una famiglia tutsi), che in quei giorni funesti perse il marito e i figli.
Ciò che le è capitato dimostra quanto le differenze e le rivalità etniche fossero da un lato, estremizzate, dall’altro piuttosto labili. Riuscì a scampare al massacro grazie all’aiuto di una donna appartenente all’etnia Hutu, Jacqueline Mukansonera. Attraverso questo gesto di una persona teoricamente ostile, Yolande Mukagasana ha raccolto i tasselli della sua esistenza, ha elaborato la tragedia che ha colpito lei e la sua terra, e ha cercato di riprendere in mano la sua vita realizzando progetti orientati alla pacificazione nazionale.
Da infermiera a scrittrice
Rifugiatasi in Belgio, inizia a scrivere, un modo per ordinare pensieri ed emozioni e per far conoscere al mondo quanto è accaduto in Ruanda. Alla fine degli anni Novanta esce il suo primo libro La morte non mi ha voluta, in cui l’autrice dispiega gli eventi drammaticamente assurdi avvenuti nel ’94 in Ruanda, intrecciandoli con la sua biografia di infermiera tusti, fuggita dal suo Paese dopo l’uccisione del marito e dei figli.
Ottenuto lo status di rifugiata politica in Belgio, racconta le profonde sensazioni interiori provate, senza mai pensare alla vendetta. Nel 2008, esce un altro intenso libro Le ferite del silenzio. Testimonianze sul genocidio del Ruanda, realizzato in collaborazione con il fotografo belga Alain Kazinierakis.
Scrive Yolande nell’introduzione: “Io non li odio […] Ho bisogno di salvaguardare ciò che il genocidio non è riuscito a distruggere dentro di me: l’amore. Ho così tanta paura di questi carnefici. Per me rappresentano la morte ingiusta, l’odio devastante e la crudeltà. Se riescono a distruggere quel po’ che mi resta, allora mi avranno sconfitto. Non glielo permetterò! Devo superare questa paura per dare una speranza ai bimbi ruandesi, ai bimbi del mondo, per proteggerli. Quando si parlerà del genocidio in Ruanda, dovranno sapere che si è trattato di una realtà e non di una leggenda. La ricostruzione può avvenire solo attraverso la verità e la giustizia”.
Nel libro Le ferite del silenzio Yolande Mukagasana esprime una forte denuncia contro l’impunità dei carnefici e la mancata attuazione di una concreta, tangibile giustizia: “Le vittime del genocidio dei Tutsi sono ancora di più vittime, poiché nessuna potenza ha voluto aiutarli a ricostruirsi. Dal 1994, si pretende che mantengano un rigoroso silenzio. Il TPIR (Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda) non prevede per loro alcun risarcimento. Non hanno avvocati; sono rappresentate solo dal pubblico ministero. Non hanno diritto a costituirsi come parte civile. Sono solo dei semplici testimoni. Si sentono abbandonate dal mondo intero. Le donne violentate non hanno accesso alle medicine anti Aids, mentre i loro stupratori ricevono assistenza medica nel carcere del TPIR”.
Educare i giovani alla pace
Leggere le analisi sviluppate da Yolande è illuminante, permette di spezzare facili stereotipi e le più comuni considerazioni sul Ruanda di oggi. Si comprende come il cammino della giustizia sia stato e sia lento, imparziale, in molti casi assente. “L’ideologia del genocidio è ancora attuale in Ruanda. Lontano dal potere, si continuano a uccidere i superstiti del genocidio e qualche testimone non Tutsi. I genocidari che si riconoscono colpevoli, in base alla legge del 2001, beneficiano di una riduzione della pena: metà la scontano in carcere, l’altra metà svolgendo dei lavori per la collettività. Alcuni assassini confessano per poter usufruire dei benefici offerti dalla legge: desiderano uscire dal carcere per continuare il lavoro. Il genocidio era, infatti, chiamato “lavoro”. La parola genocidio non veniva mai usata”.
E continua: “Sono convinta che per cambiare la società occorra occuparsi dell’educazione dei bambini, dato che è stato proprio il sistema educativo precedente a creare carnefici da un lato e vittime dall’altro”.
Sulla scia di questa convinzione, dell’urgenza di educare alla pace e al rispetto reciproco, Yolande ha realizzato un testo ad hoc per gli adolescenti, dal titolo Un giorno vivrò anch’io. Il genocidio del Ruanda raccontato ai giovani (2011, ed. La Meridiana). Un libro chiaro, profondo, in cui parla di etica, diritti umani, ripercorre le cause e le fasi del genocidio in Ruanda e dell’indifferenza della comunità internazionale.
Il suo è un lavoro storico decisivo per far sì che quegli eventi non si ripetano in quella terra e in nessun altro luogo del mondo. Raccontare i fatti e chiedere giustizia sono elementi imprescindibili affinché la storia sia d’insegnamento all’uomo. La memoria è dunque indispensabile per non commettere più gli stessi tragici errori.
Articolo di Silvia C. Turrin©