12 settembre 1977. Sono passati 43 anni da questa data, che segnò la morte di Stephen Biko, leader anti-apartheid che viene commemorato ancora oggi con nostalgia da molti sudafricani. La sua vita è stata in fondo molto breve – aveva 30 anni quando morì – eppure le sue idee, le sue parole, le sue azioni e il suo sacrificio finale rimangono vividi nei cuori e nelle menti di tante persone. In questo breve articolo vogliamo ricordarlo, proprio in un anno, il 2020, estremamente oscuro e complicato per la sua terra natale, il Sudafrica.
Cosa accadde nel 1977
Era il 18 agosto 1977 quando Stephen Biko e l’amico Peter Jones, entrambi esponenti del Black Consciousness Movement (il Movimento della Consapevolezza Nera) si imbatterono in un blocco stradale della Security Police, nei dintorni di Grahamstown (provincia orientale del Capo). Biko e Jones stavano rientrando nella loro area di residenza dopo aver intrapreso un lungo viaggio verso Cape Town per incontrare Neville Alexander, intellettuale attivo all’interno dell’Unity Movement (gruppo politico molto importante nel Western Cape, di cui faceva parte proprio Alexander). Questo incontro per Biko era fondamentale per poter avviare un progetto che avrebbe potuto essere destabilizzante per il regime di apartheid dell’epoca. Infatti, nel corso del 1977, Biko maturò l’idea di promuovere la formazione di un unico movimento di liberazione, attuabile soltanto dall’unione di tutte le forze di opposizione al sistema di apartheid. L’intento era quello di creare un dialogo tra forze politiche messe al bando, come gli storici partiti dell’ANC e del PAC, e quei gruppi e movimenti che in qualche modo riuscivano ancora ad agire allo scoperto come il BCM, lo Unity Movement e altri soggetti. Ma questo progetto non vide mai la luce, anche perché Biko non riuscì a incontrare Neville Alexander. Su questo incontro mancato ci sono varie versioni. Alexander, per la pericolosità dell’incontro, avrebbe mandato un messaggio a Biko, nel quale dichiarava la sua impossibilità a vederlo, perché soggetto agli arresti domiciliari e costantemente sorvegliato dalla polizia. Tale comunicazione non giunse mai nelle mani di Biko, il quale, sfidando ancora una volta la messa al bando alla quale era costretto, si recò a Cape Town e aspettò inutilmente per tre ore davanti alla casa di Alexander. Quel viaggio, fondamentalmente infruttuoso per il BCM, risultò fatale per Biko, divenuto ormai personaggio pericoloso e scomodo.
Stephen Biko e Peter Jones vennero arrestati quel 18 agosto sulla base dell’Articolo.6 del Terrorism Act, ai sensi del quale una persona poteva essere soggetta a detenzione incommunicado e per un tempo indeterminato. Vennero separati e le loro sorti furono molto diverse. Peter Jones, dopo 533 giorni di detenzione e di torture fisiche e psicologiche, venne rilasciato nel febbraio 1979.
Stephen Biko subì anch’egli torture fisiche e psicologiche durante gli interrogatori in carcere. I dottori che lo visitarono in seguito alle percosse, a dispetto del giuramento di Ippocrate, non fecero alcuna pressione affinché potesse venire curato prontamente in una struttura ospedaliera. L’11 settembre, Biko, in uno stato di totale incoscienza, venne portato nel retro di una Land Rover. Ad accompagnarlo non vi era nessun medico. Nonostante le sue drammatiche condizioni di salute venne lasciato senza alcuna protezione, completamente nudo, ammanettato per paura che potesse scappare (in quello stato?!). I funzionari di polizia decisero (per questioni di sicurezza?!) di trasferirlo in un ospedale penitenziario a oltre 1000 km di distanza. Biko subì un viaggio terribilmente logorante. Appena giunto a Pretoria, il 12 settembre, morì.
Le menzogne delle autorità governative
La notizia della morte di Stephen Biko si diffuse in tutto il Sudafrica e poi in tutto il mondo. Secondo la versione ufficiale fornita dalle autorità governative, ribadita dall’allora Ministro della Giustizia e della Polizia James Kruger, Biko morì in prigione per uno sciopero della fame iniziato il 5 settembre. Esprimendo l’indignazione e l’incredulità di molti a tale spiegazione, un editoriale, apparso sul quotidiano sudafricano Rand Daily Mail, sottolineò come le persone non morissero per inedia nell’arco di soli sette giorni.
In seguito, il rapporto post–mortem sottolineò come l’effettiva causa della morte di Biko fosse stato un danno cerebrale, risalente prima del 12 settembre. A causa delle lesioni alla testa, si verificarono una riduzione della circolazione sanguigna, resa difficile dalla coagulazione intravascolare, a cui si aggiunsero un’insufficienza renale e l’uremia. Il rapporto evidenziò almeno una dozzina di altre escoriazioni e contusioni, incluse ferite costali. Per maggiori dettagli sul dibattito e sulle sentenze relative alla morte di Biko rimando alle pagine del mio libro “Il movimento della consapevolezza nera in Sudafrica” (Erga Edizioni).
Le idee di Biko sono ancora attuali
Alfabetizzazione, costruzione di scuole, ospedali, progetti comunitari, emancipazione psicologico-culturale degli oppressi: erano alcuni dei temi cari a Stephen Biko. In ogni sua attività cercava di enfatizzare l’importanza di un risveglio delle coscienze e delle menti dei neri, realizzabile attraverso la loro diretta partecipazione ai programmi comunitari. Tali programmi venivano promossi dai Black Community Programmes, realizzati dagli stessi gruppi discriminati. Conducendo personalmente progetti concreti, gli oppressi prendevano “consapevolezza” (da qui il nome del Movimento, Black Consciousness Movement) delle loro effettive capacità, oscurate e negate da una società razzista. Se allarghiamo questo discorso a tutti coloro che sono sfruttati e discriminati oggi, nel 2020, si nota come temi legati all’emancipazione, all’autostima, alla dignità, al superamento del complesso di inferiorità siano ancora attuali.
Biko – e più in generale il Movimento della Consapevolezza Nera – promuovevano sì un reale cambiamento all’interno di una struttura sociale imperniata sul razzismo, ma a partire da un cambio di mentalità. Quando la mente – quindi i pensieri, le convinzioni, le percezioni (spesso condizionate dal mondo esterno, da slogan politici, dalla propaganda, dall’ingegneria del consenso, ecc.) – crea limiti, non si potrà cambiare davvero la realtà e lo status quo. Nel momento in cui gli oppressi, ovunque nel mondo, prendono coscienza del loro status di subalterni e discriminati nella società, si gettano le basi per un cambiamento.
Un altro elemento interessante del pensiero di Biko riguarda la conoscenza della propria storia, delle proprie radici, una conoscenza non filtrata da giudizi esterni o da lenti deformate. Questo aspetto è importante alla luce di quanto sta accadendo non solo in Africa. Per effetto della globalizzazione e dell’imperante consumismo/capitalismo troviamo le stesse mode, lo stesso abbigliamento, persino le stesse notizie, lo stesso ritmo di vita e gli stessi modelli culturali in vari luoghi anche molto distanti tra loro. Questa tendenza rischia di appiattire le idee, rischia di creare un pensiero unico e omologante e rischia di far dimenticare alle giovani generazioni il passato che hanno vissuto i loro nonni, i loro avi.
Biko e il BCM parlavano di un recupero dell’Africanismo, inteso come approccio che guarda più all’Africa che non all’Occidente. Un approccio che enfatizza non l’economia fondata sull’individualismo sfrenato, ma sull’affermazione di una economia comunitaristica, basata sul controllo delle risorse da parte dell’intera collettività. Guardando a ciò che accade in varie zone dell’Africa (e non solo) si percepisce come sia forte la continua mitizzazione dell’Occidente. È una mitizzazione che provoca visioni distorte, e che spinge le persone a dare un’eccessiva importanza al possesso, agli status symbol, all’effimero. La continua mitizzazione dell’Occidente e, oggi, dell’impero della Cina, non fa altro che mantenere in vita un sistema fondato sulle disuguaglianze sociali, economiche e culturali.
In questo 2020, in Sudafrica (e in tutto il mondo), a causa della pandemia, il gap tra ricchi e poveri si è accresciuto. Ciò dimostra come sia ormai arrivato al capolinea il modello socio-economico dominante a livello internazionale.
La pandemia ci sta mostrando – se non era già evidente… – che tutto è collegato, tutto è interrelato.
Se non sappiamo chi siamo non possiamo sapere dove vogliamo andare. Se la nostra mente ci dice che siamo inferiori rimarremo sempre oppressi. Se la nostra mente si lascia condizionare da slogan propagandistici non saremo mai davvero liberi.
Biko, negli ultimi mesi della sua vita, capiva che per dare una spallata al regime d’apartheid tutte le forze che si opponevano ad esso dovevano unirsi. Anche questo è un elemento importante del suo lascito. Uniti si fa la differenza, divisi si perde. Se siamo uniti possiamo contrastare il razzismo che si manifesta ancora nel mondo. Se siamo uniti possiamo avviare davvero una transizione ecologica che impedisca un’ulteriore accelerazione del riscaldamento globale e del degrado del pianeta Terra.
Se siamo uniti possiamo fondare un nuovo modello di sviluppo che sia inclusivo, e che non alimenti più le disuguaglianze.
Silvia C. Turrin
Foto: Silvia C. Turrin (scattate a King William’s Town, Sudafrica)