Nel 1948, la vittoria elettorale del National Party in Sudafrica segnò l’inizio del regime di apartheid, un sistema istituzionale fondato sul razzismo. Un’epoca drammatica, che però non fu una brusca frattura nella storia sudafricana, bensì la continuazione della precedente fase.
Come evidenziò lo stesso Nelson Mandela:
“Apartheid era un vocabolo nuovo, ma l’idea era vecchia. Significa letteralmente separatezza, e rappresenta la codifica in un unico sistema oppressivo di tutte le leggi e i regolamenti che per secoli hanno mantenuto gli africani in una posizione di inferiorità rispetto ai bianchi. Quello che era esistito più o meno de facto doveva implacabilmente affermarsi de jure”.
Si può infatti rilevare un continuum tra l’apartheid e la segregazione razziale: la dottrina della diseguaglianza delle razze (teoria che non ha alcun fondamento scientifico) e lo sfruttamento economico dei neri furono elementi che accomunavano entrambi i periodi.
In pratica, i principi ispiratori e il modus operandi che hanno caratterizzato il Sudafrica durante gli anni di apartheid rappresentarono lo stadio finale delle idee e delle politiche sviluppatesi nel corso dell’800. Fu durante il periodo della segregazione che vennero poste le basi della demarcazione razziale nel settore lavorativo: elemento in seguito perfezionato dal blocco giunto al potere dopo la seconda guerra mondiale.
Oro, diamanti e le basi della segregazione razziale
Negli ultimi decenni del XIX secolo, vennero scoperti in Sudafrica ricchi giacimenti minerari. Intorno al 1867, furono rinvenuti giacimenti diamantiferi nel Griqualand occidentale, mentre nel 1884 filoni auriferi vennero per la prima volta estratti nel Witwatersrand. Fu proprio durante questo periodo che vennero creati i cosiddetti compound, prima forma di segregazione residenziale fondata su linee razziali.
Fulcro della rivoluzione mineraria e dello sviluppo del modello della segregazione razziale fu la città di Kimberley. In questo centro urbano, gli africani che lavoravano nelle miniere di diamanti vennero obbligati ad alloggiare in strutture fatiscenti e furono fra loro separati sulla base di una rigida classificazione etnico-tribale (per evitare lo sviluppo di una solidarietà di gruppo e alimentare il divide et impera).
L’impressionante sviluppo dell’industria mineraria richiedeva sempre più manodopera per l’estrazione di diamanti e oro. Per costringere le popolazioni africane a rivolgersi al lavoro minerario, si attuarono diverse strategie: furono elevate le tasse sui prodotti agricoli e perfezionato il processo di espropriazione della terra.
L’agricoltura dei bianchi (prevalentemente boeri) venne incentivata e protetta attraverso la realizzazione di reti ferroviarie che collegavano i centri di produzione agricola con i mercati di scambio, oltre che con l’introduzione di prezzi agricoli mantenuti alti. Nel 1896, venne poi introdotto il sistema delle pass law, documento di riconoscimento il quale permetteva di lavorare nelle miniere, ma impediva di cambiare lavoro.
Lo sfruttamento dei lavoratori africani
Con la creazione dell’Unione Sudafricana, che esprimeva la convergenza degli interessi dei due gruppi coloniali dominanti, inglesi e afrikaner, venne promulgato il famigerato Native Land Act, con cui la popolazione africana veniva relegata nelle cosiddette riserve, che coprivano solo il 7% dell’intera superficie sudafricana. Le basi del regime di apartheid stavano già prendendo forma.
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