Slum, bidonville, township, favelas, baraccopoli. Tante denominazioni per indicare diversi spazi urbani, sparsi nei quattro angoli del pianeta, accomunati da due elementi: la loro perifericità rispetto ai grandi agglomerati e la povertà delle migliaia di persone che popolano questi sobborghi. Termini differenti, usati a seconda che ci si riferisca alla realtà brasiliana, indiana o sudafricana, ma che indicano la medesima condizione esistenziale di donne e uomini indigenti, costretti a vivere in case fatiscenti, spesso senza luce né gas, né servizi igienici.
Sono quelle aree marginali rispetto alle grandi città, dove si ammassano immigrati, o individui privati del loro futuro a causa di guerre, carestie o disoccupazione o per atteggiamenti di stampo razzista che ghettizzano certe categorie di persone solo per il colore della pelle. Questi luoghi dei “dannati della terra”, negli ultimi anni, stanno alimentando sempre più una nuova forma di turismo, il cosiddetto “slum tourism”, sostenuto non solo da agenzie turistiche prive di scrupoli pur di obbedire alle logiche del mercato e di aumentare le loro entrate, ma anche da documentaristi che immortalano scene di vita quotidiana senza alcun rispetto per l’intimità familiare.
Alle porte di Nairobi: miseria e intrattenimento
Il fenomeno del “turismo degli slum” è stato di recente messo in risalto da un articolo pubblicato sul New York Times, firmato Kennedy Odede, direttore esecutivo dell’organizzazione di stampo sociale Shining Hope for Communities, cresciuto a Kibera, alle porte di Nairobi, una delle bidonville più grandi e popolose dell’Africa e del mondo intero, dove il 50% dei suoi abitanti sono disoccupati e solo il 20% possono disporre dell’elettricità.
Nel suo scritto, Kennedy Odede ha ricordato un episodio accadutogli giovanissimo:«Avevo sedici anni quando ho visto per la prima volta uno “slum tour”: mi trovavo all’esterno della mia casa di 9,5 metri quadri a lavare i piatti, e fissavo ogni singolo utensile con vivo desiderio, perché erano due giorni che non toccavo cibo. All’improvviso una signora bianca mi ha scattato una fotografia. Mi sono sentito come una tigre in gabbia. Prima che potessi dire qualcosa, se ne era già andata».
E aggiunge: «Il turismo nei bassifondi ha i suoi sostenitori, secondo i quali esso promuove la consapevolezza sociale, portandovi soldi che contribuiscono all’economia locale. Secondo me non ne vale la pena: il turismo nei bassifondi trasforma la povertà in intrattenimento, in qualcosa che si può sperimentare provvisoriamente per poi fuggirne. La gente crede di aver “visto” davvero qualcosa, ma poi ritorna alla propria vita, lasciando me, la mia famiglia e la mia comunità esattamente dove e come eravamo».
Il mio articolo nella versione integrale continua sul sito di SMA Afriche