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L’economia emergente? è una bolla insostenibile

Da Il Manifesto segnalo questa bella intervista di Marina Forti a Jayati Ghosh, economista della Nehru University di New Dehli.

L’India è stata descritta come una delle «storie di successo» del mondo globalizzato. Economia emergente, tra il 2004 e il 2010 ha sfiorato tassi di crescita del 9% annuo del Prodotto interno lordo (Pil). E’ stata definita uno dei Bric, con Brasile, Russia e Cina, secondo la definizione coniata nei primi anni ‘2000 per le economie che stavano cambiando gli equilibri mondiali. E’ uno dei G20, e attira notevole interesse delle potenze occidentali sia come mercato, sia come potenza regionale. Certo, a volte tra le righe della storia di successo emergono notizie che contrastano – la povertà persistente, le diseguaglianze interne in aumento vertiginoso, i conflitti sociali. E oggi anche i Bric si scoprono fragili: la scorsa settimana l’India ha annunciato che la sua crescita quest’anno si attesta sul 5,3 per cento: per un paese europeo sarebbe un sogno, ma per una nazione di 1,2 miliardi di persone con enormi sacche di povertà è un passo stanco.
Cosa succede dunque del «miracolo» indiano? «Le bolle prima o poi scoppiano», risponde Jayati Ghosh, professore di economia della prestigiosa Jawaharlal Nehru University di New Delhi, editorialista per Frontline in India e per The Guardian in Gran Bretagna, e presidente di Ideas, che si definisce «una rete pluralista di economisti eterodossi impegnati nell’analisi critica dello sviluppo economico». La signora Ghosh era a Roma giorni fa su invito della Fondazione internazionale Lelio Basso. Ne abbiamo approfittato per qualche domanda sulla crisi vista da una «economia emergente».
Quanto è sostenibile la crescita registrata dell’India nell’ultimo decennio? «Non è sostenibile», ci risponde l’economista, «per almeno due motivi. Il primo è che è stata fondata non su una crescita dei salari e del reddito dei cittadini ma sulla capacità di attirare investimnenti privati permettendo alti profitti alle imprese. Voglio dire: è una crescita del Pil che non ha generato posti di lavoro. Il settore delle information technologies, elettronica e servizi informatici tanto citati come simbolo della crescita, occupa circa 2 milioni di persone. Sembra molto? Non è neppure metà dell’1 per cento della forza lavoro indiana. Gran parte degli indiani continua a lavorare o in una economia agricola poco produttiva, o in mestieri malpagati, servizi di basso livello, venditori ambulanti, manovali. Nonostante la crescita, il 93% della forza lavoro è occupata nel cosiddetto settore “non organizzato”, che significa senza regolare contratto di lavoro, precari e senza tutele. Il secondo problema è che gran parte di questa crescita è stata una bolla, come del resto un po’ ovunque nel sud-est asiatico, in turchia, in alcuni paesi latinoamericani. L’India è stata “scoperta” dal capitale globale; l’arrivo di capitali ha fatto scendere il costo del denaro, è stato allargato il credito per finanziare il boom dei consumi delle classi medie urbane. Credito facile per finanziare i consumi: per questo dico che è una bolla».

Ora il governo indiano annuncia un modesto 5,3% di crescita. I commenti ufficiali dicono che l’India risente della crisi globale, che infine arriva a toccare anche i Bric. O ci sono fattori interni?
Forse senza il fattore globale la bolla avrebbe retto ancora un anno o due. Ma il fattore esterno ha solo determinato i tempi della crisi: prima o poi doveva scoppiare, proprio per la sua natura di bolla. Ora ci dicono che bisogna liberalizzare di più, tagliare le sovvenzioni sui prezzi, facilitare gli investimenti… Guardiamo bene: gli “investimenti diretti stranieri”, tanto corteggiati dai dirigenti indiani, sono andati o nella bolla finanziaria o nell’industria estrattiva.
Già: e giornali come The Economist si chiedono se l’India è abbastanza «favorevole» agli investitori stranieri perché, dice, ottenere i via libera per progetti di investimento è una cosa lunga.
Per molto tempo ottenere terre e concessioni è stato fin troppo facile. Una questione davvero esplosiva è quella dell’acquisizione delle terre: ogni nuovo progetto industriale o minerario implica acquisire terre e cacciare via chi le abita. Solo negli ultimi cinque anni ci sono state proteste organizzate e vocali, e ora il governo sta elaborando nuove norme che rendano più democratico – qualcuno dirà “più difficile”, ma io dico più equo – acquisire terre. Si è parlato molto del Bengala occidentale, Singur ndr], ma ci sono stati casi ben più impressionanti. Gli stati hanno preso migliaia di ettari per darli a investitori ben ammanicati: un massiccio landgrab, un gigantesco accaparramento di terre a favore di grandi speculazioni. Miniere più o meno legali e mafie della terra hanno prodotto surplus poi serviti per consolidare anche l’influenza politica, creando un nesso allarmante tra mafie e potere del denaro. Ne abbiamo avuto un esempio nello stato di Karnataka, dove un capo del governo era anche il maggiore boss di miniere illegali. Ma la corruzione è un fall out quasi inevitabile della strategia di attrarre gli investitori privati, indiani e stranieri, offrendogli tutte le facilitazioni.

Crescita che non genera lavoro, bolle speculative, e «l’ossessione della crescita del Pil come unica misura del progresso», come ci ha detto nella sua conferenza. Ma cosa succede ora, di fronte alla crisi?
Credo che la crisi sia un’opportunità per riorientare la direzione della crescita, in India e altrove. Spesso sento citare Cina e India come casi analoghi, ma l’economia cinese è molto più forte. Soprattutto, la Cina ha investito nei fondamentali: strade, energia elettrica in tutti i villaggi, sistemi idrici. L’India è indietro, deve investire in spesa sociale. Gli indicatori sociali sono terribili. Ora in discussione una legge sul diritto al cibo, ed è necessario che sia riconosciuto come diritto universale. Bisogna ridefinire gli obiettivi macroeconomici: accesso a casa, sanità, cibo; generare lavoro. Rivedere la relazione tra gli umani e la natura, come stanno facendo paesi come la Bolivia o l’Ecuador. Investire in spesa pubblica: sia per garantire ai cittadini i servizi fondamentali che fanno la forza di un paese, sia perché genera occupazione. O altrimenti vedremo crescere le diseguaglianze, e il gap tra le aspirazioni e la realtà diverrà insopportabile, soprattutto per milioni di giovani: con un potenziale conflitto sociale esplosivo.

 

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